lunedì 22 dicembre 2014

Il traffico illegale di reperti archeologici: un furto al patrimonio storico dell'umanità intera #cultureforpeace



Nella piana di Ninive, nei pressi dell’odierna città di Mossul in Iraq, sono presenti i resti archeologici della prima civiltà stanziale che l'umanità abbia conosciuto. La ricca storia dell’area ha visto un susseguirsi di popoli che hanno lasciato traccia della loro civiltà: da reperti preistorici risalenti al VI millenno a.C., a quelli di epoca Uruk per non tralasciare i lasciti dei regni Assiri. Resti archeologici importantissimi per la storia dell'umanità intera che ha vissuto epoche di grande livello culturale nella fertile area a nord della Mesopotamia e al cui recupero e riscoperta ha contribuito, tra gli altri e ripetutamente, anche una missione archeologica italiana di un team di ricercatori dell'Università di Udine. Oltre al drammatico bilancio di vite umane, i violenti scontri in Iraq degli ultimi decenni hanno danneggiato pesantemente il patrimonio culturale, uno dei più preziosi e antichi del mondo. Oggi il cosiddetto Stato Islamico ha colpito con violenza moltissime testimonianze della ricca presenza multiculturale preislamica di quel Paese e risulta, da numerose fonti crescenti, che gli scavi di materiale archeologico in qualche misura autorizzati dal nuovo Governo, sono al centro di un traffico crescente di manufatti e ritrovamenti antichi che, venduti su mercati internazionali, da un lato, costituiscono una delle principali fonti di finanziamento di chi sta oggi perpetrando violenze inaudite su civili di ogni fede e nazione, e, dall'altro, contribuiscono a disperdere in modo irrecuperabile un patrimonio culturale inestimabile dell'umanità. Vere e proprie archeomafie su scala internazionale che si stanno sviluppando a danno della collettività e di questo immenso patrimonio storico. Nel campo dell’archeologia e in particolare del recupero di reperti archeologici oggetto di tale traffico illegale, l'Italia ha competenze uniche riconosciute e che potrebbero essere il contributo peculiare del nostro Paese tanto alla lotta al terrorismo quanto alla difesa di quel patrimonio dell'umanità che ha lasciato il passato e che è fondamentale per il futuro. Senza memoria non c’è futuro, togliere le radici a un popolo è estirparlo dalla terra perché senza radici non può continuare a progredire e senza un patrimonio culturale non potrà amare la propria storia e quindi proteggerla. 
Un'interrogazione parlamentare dell'on. Roberto Rampi (PD) punta a fare chiarezza sulla vicenda e chiede che il Governo si occupi di fare modo che l'Italia sia parte attiva in una task force internazionale che prevenga tali fenomeni di contrabbando e commercio illegale.

mercoledì 3 dicembre 2014

Lasciare la libertà d'informazione in balia del mercato? Non proprio.

Un intervento approfondito e non banale quello dell'on. Roberto Rampi che oggi ha incontrato in Commissione Cultura alla Camera Marco Travaglio in occasione dell'audizione sull'abolizione del finanziamento pubblico all'editoria. Un pezzo di ragionamento in più su un tema di cui tanto si parla ma poco si conosce effettivamente nella sua complessità.

"Vorrei capire nell’esperienza del Fatto Quotidiano se si sostiene solo con le entrate dei lettori o anche con le entrate della pubblicità e quindi la domanda poi che diventa un po’ più generale è questa, cioè se l’informazione sia un servizio o un prodotto e quindi a chi risponde rispetto a chi la finanzia.
Mi sembra di intuire dalla sua prima lettura che lei sostiene che il finanziamento pubblico potrebbe portare l’informazione a dipendere di fatto dal potere di quel Paese. Io penso però che se una norma è fatta bene – e quindi noi siamo convinti che vada riformato il finanziamento – il tipo di informazione che si va a dare non porta ad un’informazione che dipende dal potere in quel momento ma dovrebbe avere delle caratteristiche di oggettività e quindi sostenere tutta una serie di voci plurali, soprattutto piccole, soprattutto indipendenti che invece nel libero mercato potrebbero non farcela.
Come però la preoccupazione che il finanziamento pubblico porti l’informazione a dipendere dal potere, l’idea che ci sia un libero mercato dell’informazione non porta l’informazione a dipendere da quelle entrate economiche che la sostengono economicamente, ad esempio da grandi o piccoli potentati economici?
Dico grandi o piccoli perché molto spesso parliamo di giornali a livello locale che stando alle regole del finanziamento potrebbero avere la possibilità di essere completamente indipendenti. Vivendo esclusivamente di un’entrata pubblicitaria potrebbero rispondere agli interessi economici di un soggetto locale che è disposto a fare pubblicità su quel giornale ma in cambio vuole una particolare attenzione alle informazioni etc.
Mi domando, su un piano urbanistico un giornale che vive in maniera significativa delle pubblicità di un gruppo edilizio che va a costruire in quella realtà avrà la possibilità di essere indipendente nel giudicare quel piano urbanistico, quel provvedimento che favorisce un operatore rispetto a un altro?
Questa è un po’ la riflessione di fondo che ci facciamo che a me porta a questa grande domanda: se l’informazione è un prodotto o è un servizio e quindi se è un servizio come altri servizi – penso a quelli sanitari, sociali, bibliotecari, culturali – non deve essere in qualche modo garantito grazie alle tasse che i cittadini pagano e che servono a garantire dei servizi?
E la seconda domanda è questa, che è collegata: se noi facciamo vivere l’informazione esclusivamente del ritorno di mercato che ha, perché di questo stiamo parlando, non c’è il rischio che ciò che non va di moda, che non interessa in quel momento non possa più avere voce? Pur sapendo che a volte nella storia le cose che non andavano di moda dicevano qualcosa di molto importante che magari in quel momento non tirava, non funzionava. Perché il rischio è che in questo modo sopravviva solo ciò che funziona, solo ciò che piace, ma quello che piace in quel momento ai più non è detto che sia - io non dico la verità, perché non so dove stia la verità però io credo che la verità si componga dall’esistenza di una pluralità di opinioni. Quindi la mia preoccupazione come legislatore è capire come fare a garantire la libertà d’opinione.
Poi bisogna essere d’accordo che bisogna intervenire su tutto ciò che può essere spreco, tutto ciò che può essere sostegno occulto e quindi capire anche quali sono le forme. Ad esempio esistono e sono esistite delle sovvenzioni per far abbassare il costo della carta dei giornali e mi risulta che anche il Fatto ha usufruito di questo tipo di supporto pubblico. Si potrebbe forse pensare di mettere in campo una serie di servizi. Si potrebbe pensare, ma in parte oggi è già così, a legare la possibilità di accedere al finanziamento pubblico a una serie di criteri di qualità, nella modalità in cui si lavora in quei giornali, nella modalità in cui sono qualificate le competenze di chi ci lavora e quindi anche forme di competenza legate alla qualità.
Insomma la domanda di fondo è questa, se davvero lei è convinto che abolendo tout court il finanziamento si ottenga nella libertà una specie di magia dell’economia, la pluralità delle informazioni – e traspare la mia convinzione che non sia così – se questo non rischi di vedere grandi o piccole testate tutte dipendenti di fatto da diversi poteri economici, che in alcuni casi sono anche proprio i loro lettori. Lei ha detto “ci possono comprare solo i nostri lettori” però se io per farmi comprare devo continuare ad assecondare i miei lettori quando devo dire una cosa scomoda che ai miei lettori non piace forse mi faccio qualche dubbio se dirla o meno.
Io vorrei che un giornalista o una testata possano sentirsi sempre in qualsiasi momento liberi di dire quello che ritiene sia quella vicenda e di raccontarla come ritiene giusto raccontarla senza preoccuparsi di chi la compra o di chi gli fa pubblicità o di chi la paga."