giovedì 26 ottobre 2017

Verso una parità di genere effettiva: come?

Ad oggi, sembra quasi un dato positivo avere un’occupazione femminile al 48% mentre la media europea è del 65%. Mi pongo una domanda necessaria: come colmare questo gap? Come rendere l’Italia più europea e di fatto più propensa a non discriminare la donna e a non metterla nelle condizioni di dover scegliere tra carriera e maternità?
Sicuramente il percorso è lungo e complesso e richiede un lavoro culturale che parte dalla scuola e dalla famiglia, un lavoro certamente non facile e non scontato. Cosa può fare la politica per incidere in modo determinante in questo percorso? La risposta non è facile ma mi sento di rilanciare tre idee,  già discusse in un recente passato da esperti del lavoro.
INCENTIVARE L’OCCUPAZIONE FEMMINILE
Un’idea di non facile realizzazione può essere quella di incentivare il lavoro femminile con una riduzione dell’IRPEF, non per un anno o due ma fino al raggiungimento della media europea del 65% di occupazione femminile, o fino al raggiungimento di una parità di genere nell’occupazione.  Incentivare con sgravi fiscali come si è fatto con il Jobs Act con i  primi 3 anni di assunzione e come si sta provando a fare per gli under 35, in modo da far sì che a parità di stipendio non convenga mai all’interno di una famiglia scegliere che sia la donna a rinunciare ai propri obiettivi professionali.
EDUCARE ALLA GESTIONE CONGIUNTA DEI CARICHI FAMIGLIARI
In Parlamento giacciono alcune proposte di legge per il permesso di paternità obbligatorio: ecco io credo che su questo elemento bisognerebbe fare un investimento maggiore, estendendo il permesso di paternità obbligatorio ad almeno un mese ma anche suddividendo i mesi di maternità facoltativa (8 mesi totali) in 4 mesi per la madre e 4 mesi per il padre, in modo che il padre sia incentivato ad usufruirne e lo stesso anche per i congedi parentali orizzontali, le 16 ore settimanali di cui le madri usufruiscono nei primi mesi di vita. Ripensare i tempi di vita delle neocoppie, fin da subito come un tempo di responsabilità comune, per provare ad estirpare quel pregiudizio così radicato nella nostra società per cui “la donna fa per dovere, l’uomo le dà una mano se vuole”. 
INVESTIRE IN COMUNITA’
Nella società dell’individualismo, troppo spesso la gestione dei bambini viene ritenuta di competenza dei soli genitori e famigliari, spesso nonni che ancora lavorano perché non hanno raggiunto l’età pensionabile o che sono troppo stanchi per correre appresso a bambini pieni di vitalità ed energia. Ripensare i servizi dell’infanzia non come un optional per benestanti ma come accoglienza del piccolo cittadino che cresce nella comunità di cui fa parte: come dice un noto proverbio africano “per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”. Questo può declinarsi certamente in asili nido o babysitter comuni di condominio, ma anche in uno sforzo da parte della scuola per farsi carico dei bambini e dei ragazzi nel tragitto casa-scuola tramite servizi piedibus o altre forme che favoriscano l’aggregazione

e la socialità. L’abitudine ad una gestione dei bambini da parte della comunità tutta potrebbe, nel corso di qualche anno, aiutare le donne a liberarsi dal giudizio morale che spesso ancora subiscono nel momento in cui legittimamente scelgono di dedicarsi al lavoro 8 o 10 ore al giorno perché quel lavoro costituisce la loro passione e la loro realizzazione personale, le rende felici e di fatto permette loro di spendere con i propri figli un tempo quantitativamente inferiore ma qualitativamente superiore.

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