"Scegli un lavoro che ti piace e non lavorerai neanche un giorno in tutta la vita"
- Confucio -
Sembra un ossimoro in tempo di crisi, ma credo che la passione sia la chiave per cambiare la propria vita. Fare cose che piacciono, e costruire un percorso. Trovare sentieri, strade, alternative. Impegnarsi in quello in cui si crede, è l'essenza della vita, dà carica e la possibilità di rinnovarsi sempre, la forza di non perdere mai la voglia di fare, di superare gli ostacoli che si frappongono fra voi e gli obiettivi, in genere piccoli e in continuo cambiamento, che vi ponete ogni giorno.
Non uscire mai dalla complessità cercando semplificazioni, anche se apparentemente c'è un'uscita. Non uscire dalle difficoltà cercando la via facile, la scorciatoia, ma appassionarsi nella ricerca di mezzi per superare gli ostacoli, che affrontati uno ad uno vi sembreranno più piccoli. Non cercare mai un'illusoria stabilità per cercare di opporsi al cambiamento, e non rinunciare mai alla passione.
Qualunque cosa vi piaccia fare, farlo bene e migliorarsi perché sia fatto al meglio. Credo che una vita possa definirsi piena se vissuta così, con la carica e l'entusiasmo di chi fa qualunque cosa in modo spontaneo come respirare, come mangiare, e come quando respira o mangia arriva a pensare che il suo lavoro è parte di sé, che non c'è un tempo lavorativo e un tempo libero ma c'è un tempo che ognuno di noi occupa dando il massimo per cogliere l'essenza della sua vita. In modo assolutamente soggettivo e diverso da persona a persona, ma con la base comune di non voler buttare via neanche un minuto della propria vita.
mercoledì 21 gennaio 2015
venerdì 16 gennaio 2015
Perché Greta e Vanessa erano in Siria: la risposta alla domanda di tutti voi
La risposta alla domanda di tutti i banali superficiali che vedono nell'entusiasmo giovanile una difetto da correggere ... magari tutto il mondo fosse così.
Cosa erano andate a fare Greta e Vanessa in Siria?
Ecco il resoconto dopo la prima missione, scritto dalla ragazze nell’aprile del 2014 e pubblicato su Facebook:
Missione di sopralluogo : il progetto nasce dopo un sopralluogo effettuato nel mese di marzo da Roberto Andervill, Greta Ramelli e Vanessa Marzullo attiviste per la Siria. Atterrati in Turchia, siamo stati accompagnati da una guida siriana nella sua terra, di preciso nelle zone rurali di Idlib, a sud ovest rispetto ad Aleppo. Durante questa prima visita si è cercato di instaurare un primo rapporto con la popolazione locale , al fine di capire le vere necessità e visitare i luoghi coinvolti nel progetto. In particolar modo sono stati visitati i due centri di primo soccorso di B. e H., dove c’è stata la possibilità di rilevare le principali problematiche nell’ambito dell’assistenza medica: carenza di personale adatto e di materiale essenziale per condurre assistenza sanitaria di base e di emergenza. Durante questa missione siamo stati sempre accompagnati e scortati da personale locale, con un alto grado di sicurezza.
In collaborazione con il personale medico presente sul posto si è deciso di attivarsi al fine di perseguire due specifici obiettivi:
1. Attivare un corso base di primo soccorso e rifornire alcune aree di kit di emergenza di primo soccorso corredati di tutto il materiale occorrente.
2. Garantire ai pazienti malati di patologie croniche di accedere alle giuste terapie rispettando i tempi, dosi e qualità dei farmaci.
Il nostro Progetto si compone così di due parti distinte che verranno portate avanti sia in maniera separata e sia in parallelo, a seconda delle esigenze contingenti in loco.
La ragione del Primo Obiettivo nasce dall’aver riscontrato nelle zone in questione che chi si occupa dell’assistenza medica lo fa spesso senza il materiale adatto a specifiche modalità di intervento, anche se ricevono materiale sanitario da parecchie organizzazioni. Tuttavia, essendo aree in cui sono migrate moltissime persone provenienti dalla città, gli aiuti non bastano. Il nostro obiettivo è diffondere le nozioni di base del primo soccorso per permettere a coloro che si impegnano volontariamente nel soccorso dei feriti di aiutare nel migliore dei modi, oltre a fornire il materiale necessario. Insegnando loro le tecniche principali, otterremo delle persone più competenti, ci saranno minori errori nel soccorso, ci sarà maggior risparmio di materiale e la qualità dell’assistenza aumenterà. Il nostro principale obiettivo è rendere queste aree autonome laddove è possibile.
Per quanto riguarda il Secondo Obiettivo, abbiamo considerato le condizioni delle aree interessate, le quali non ricevono un rifornimento di medicinali costante e di conseguenza le persone che soffrono di patologie croniche non hanno la possibilità di accedere a terapie, a causa della mancanza di medicinali appropriati. Durante la missione abbiamo avuto la possibilità di vedere persone con casi clinici molto rari, alla cui base ci sono malattie mortali, per cui è necessario un intervento tempestivo e costante. Inoltre, a causa della mancanza di strumenti di diagnosi, si è impossibilitati a riconoscere le patologie basandosi su dati scientifici. Questo comporta una qualità di assistenza molto bassa.
In accordo con il personale del posto abbiamo deciso di disporre la zona di un medico italiano che lavorerà, a breve termine, in collaborazione con il personale locale al fine di inserire i pazienti in un programma. Quest’ultimo permetterà di avere una lista delle persone che necessitano di precise terapie e garantire loro la possibilità di curarsi nel migliore dei modi.
Dopo aver avviato il servizio il personale medico locale garantirà la continuità dell’assistenza mirata.
E per chi dice che erano delle sprovvedute, un breve riepilogo del loro percorso (che mai ne renderà tutta la complessità è chiaro che sono consapevole che è riduttivo):
Vanessa Marzullo, 21 anni, di Bergamo. Studentessa di Mediazione Linguistica e Culturale, curriculum Attivita' Internazionali e Multiculturali - lingue: Arabo e Inglese. Volontaria presso Organizzazione Internazionale di Soccorso. Dal 2012 si dedica alla Siria, dalla diffusione di notizie tramite blog e social networks all'organizzazione di manifestazioni ed eventi in sostegno del popolo siriano in rivolta. Questo culmina nell’organizzazione e nella nascita del Progetto “Assistenza Sanitaria in Siria”.
Greta Ramelli, 20 anni, di Varese, studentessa di Scienze Infermieristiche. Diplomata al liceo linguistico Rosetum dove ha studiato inglese, spagnolo e tedesco. Volontaria presso Organizzazione Internazionale di Soccorso, operatrice pronto soccorso trasporto infermi e nel settore emergenza (livello operativo). Nel maggio 2011 trascorre 4 mesi in Zambia nelle zone di Chipata e Chikowa lavorando come volontaria presso 3 centri nutrizionali per malati di AIDS, incluso alcune settimane presso le missioni dei padri comboniani. Nel dicembre 2012 ha trascorso tre settimane a Calcutta, India, dove ha svolto volontariato presso la struttura Kalighat delle suore missionarie della carità e ha visitato progetti di assistenza alla popolazione indiana presente negli slums. Attualmente si occupa principalmente di Siria, sia per quanto riguarda l'accoglienza profughi insieme ad altri volontari, sia per attivismo e per aiuti umanitari. Al momento collabora con il Comitato S.O.S. Siria di Varese, l’Associazione delle Comunità Arabe Siriane e IPSIA Varese nel progetto “Assistenza Sanitaria in Siria”.
Cosa erano andate a fare Greta e Vanessa in Siria?
Ecco il resoconto dopo la prima missione, scritto dalla ragazze nell’aprile del 2014 e pubblicato su Facebook:
Missione di sopralluogo : il progetto nasce dopo un sopralluogo effettuato nel mese di marzo da Roberto Andervill, Greta Ramelli e Vanessa Marzullo attiviste per la Siria. Atterrati in Turchia, siamo stati accompagnati da una guida siriana nella sua terra, di preciso nelle zone rurali di Idlib, a sud ovest rispetto ad Aleppo. Durante questa prima visita si è cercato di instaurare un primo rapporto con la popolazione locale , al fine di capire le vere necessità e visitare i luoghi coinvolti nel progetto. In particolar modo sono stati visitati i due centri di primo soccorso di B. e H., dove c’è stata la possibilità di rilevare le principali problematiche nell’ambito dell’assistenza medica: carenza di personale adatto e di materiale essenziale per condurre assistenza sanitaria di base e di emergenza. Durante questa missione siamo stati sempre accompagnati e scortati da personale locale, con un alto grado di sicurezza.
In collaborazione con il personale medico presente sul posto si è deciso di attivarsi al fine di perseguire due specifici obiettivi:
1. Attivare un corso base di primo soccorso e rifornire alcune aree di kit di emergenza di primo soccorso corredati di tutto il materiale occorrente.
2. Garantire ai pazienti malati di patologie croniche di accedere alle giuste terapie rispettando i tempi, dosi e qualità dei farmaci.
Il nostro Progetto si compone così di due parti distinte che verranno portate avanti sia in maniera separata e sia in parallelo, a seconda delle esigenze contingenti in loco.
La ragione del Primo Obiettivo nasce dall’aver riscontrato nelle zone in questione che chi si occupa dell’assistenza medica lo fa spesso senza il materiale adatto a specifiche modalità di intervento, anche se ricevono materiale sanitario da parecchie organizzazioni. Tuttavia, essendo aree in cui sono migrate moltissime persone provenienti dalla città, gli aiuti non bastano. Il nostro obiettivo è diffondere le nozioni di base del primo soccorso per permettere a coloro che si impegnano volontariamente nel soccorso dei feriti di aiutare nel migliore dei modi, oltre a fornire il materiale necessario. Insegnando loro le tecniche principali, otterremo delle persone più competenti, ci saranno minori errori nel soccorso, ci sarà maggior risparmio di materiale e la qualità dell’assistenza aumenterà. Il nostro principale obiettivo è rendere queste aree autonome laddove è possibile.
Per quanto riguarda il Secondo Obiettivo, abbiamo considerato le condizioni delle aree interessate, le quali non ricevono un rifornimento di medicinali costante e di conseguenza le persone che soffrono di patologie croniche non hanno la possibilità di accedere a terapie, a causa della mancanza di medicinali appropriati. Durante la missione abbiamo avuto la possibilità di vedere persone con casi clinici molto rari, alla cui base ci sono malattie mortali, per cui è necessario un intervento tempestivo e costante. Inoltre, a causa della mancanza di strumenti di diagnosi, si è impossibilitati a riconoscere le patologie basandosi su dati scientifici. Questo comporta una qualità di assistenza molto bassa.
In accordo con il personale del posto abbiamo deciso di disporre la zona di un medico italiano che lavorerà, a breve termine, in collaborazione con il personale locale al fine di inserire i pazienti in un programma. Quest’ultimo permetterà di avere una lista delle persone che necessitano di precise terapie e garantire loro la possibilità di curarsi nel migliore dei modi.
Dopo aver avviato il servizio il personale medico locale garantirà la continuità dell’assistenza mirata.
E per chi dice che erano delle sprovvedute, un breve riepilogo del loro percorso (che mai ne renderà tutta la complessità è chiaro che sono consapevole che è riduttivo):
Vanessa Marzullo, 21 anni, di Bergamo. Studentessa di Mediazione Linguistica e Culturale, curriculum Attivita' Internazionali e Multiculturali - lingue: Arabo e Inglese. Volontaria presso Organizzazione Internazionale di Soccorso. Dal 2012 si dedica alla Siria, dalla diffusione di notizie tramite blog e social networks all'organizzazione di manifestazioni ed eventi in sostegno del popolo siriano in rivolta. Questo culmina nell’organizzazione e nella nascita del Progetto “Assistenza Sanitaria in Siria”.
Greta Ramelli, 20 anni, di Varese, studentessa di Scienze Infermieristiche. Diplomata al liceo linguistico Rosetum dove ha studiato inglese, spagnolo e tedesco. Volontaria presso Organizzazione Internazionale di Soccorso, operatrice pronto soccorso trasporto infermi e nel settore emergenza (livello operativo). Nel maggio 2011 trascorre 4 mesi in Zambia nelle zone di Chipata e Chikowa lavorando come volontaria presso 3 centri nutrizionali per malati di AIDS, incluso alcune settimane presso le missioni dei padri comboniani. Nel dicembre 2012 ha trascorso tre settimane a Calcutta, India, dove ha svolto volontariato presso la struttura Kalighat delle suore missionarie della carità e ha visitato progetti di assistenza alla popolazione indiana presente negli slums. Attualmente si occupa principalmente di Siria, sia per quanto riguarda l'accoglienza profughi insieme ad altri volontari, sia per attivismo e per aiuti umanitari. Al momento collabora con il Comitato S.O.S. Siria di Varese, l’Associazione delle Comunità Arabe Siriane e IPSIA Varese nel progetto “Assistenza Sanitaria in Siria”.
giovedì 15 gennaio 2015
Greta e Vanessa libere
Più amore per tutti. Il messaggio che Greta e Vanessa hanno portato con
sè durante il loro viaggio in Siria, un messaggio di speranza e pace. Un
impegno dell'Italia a riportarle a casa, e oggi sono finalmente libere.
Una scelta di vita quella di essere volontarie, come tante altre persone che hanno scelto di dedicare la propria vita agli altri. Purtroppo queste persone non vedono mai riconosciuto il loro valore tanto quanto chi, per esempio, sceglie di fare il militare per professione, perché così avrà una paga più alta e potrà viaggiare a spese dello Stato. A quanto pare fare una scelta militare, ovvero fare anni di addestramento per imparare a sparare e formarsi per affrontare la violenza umana in modo violento, merita un qualche rispetto da parte delle persone più ottuse. Se uno poi va all'estero per lavoro, pare che la colpa sia dell'azienda. Evidentemente solo gente che non ha mai lavorato nella vita o che non ha mai avuto un minimo di gusto per la sfida può ritenere che andare in trasferta sia un obbligo. In genere è frutto di mesi o anni di fatiche, contrattazioni, guadagnarsi ruoli che si possono perdere un attimo se il collega ti pesta i piedi, ore di straordinari per arrivare lì. Perché la sfida quotidiana ti piace, se no ti eri già arreso dopo qualche anno dicendo: "è stato bello, ma adesso mi dedico ad altro". Perché in nessun lavoro viaggiare è un obbligo, ma i lavori più belli e più stimolanti per le persone appassionate prevedono la conoscenza del resto del mondo e non la chiusura.
Detto questo, se uno va all'estero per portare cibo e vestiti merita tutto il rispetto del nostro Paese. Forse, visto che viviamo per il dio denaro, non si può pretendere che meritino più rispetto di chi all'estero ci va per portare merci, ma almeno lo stesso rispetto. Quindi sì, dopo tutte le critiche, due splendide giovani donne sono vive e tornano a casa libere e l'Italia non può che essere orgogliosa di loro. Perché hanno viaggiato portando pace e amore e aiuto a chi era più in difficoltà.
Tra l'altro trovo alquanto incredibile che le critiche alla loro scelta di essere volontarie in un Paese di guerra arrivino spesso dalle stesse persone a cui ho sentito dire che i profughi non possono venire tutti qui ma dobbiamo "aiutarli a casa loro". Immagino che dalla comodità del loro divano dovremo ascoltare anche come secondo loro queste persone dovrebbero essere aiutate, se non in modo concreto.
Una scelta di vita quella di essere volontarie, come tante altre persone che hanno scelto di dedicare la propria vita agli altri. Purtroppo queste persone non vedono mai riconosciuto il loro valore tanto quanto chi, per esempio, sceglie di fare il militare per professione, perché così avrà una paga più alta e potrà viaggiare a spese dello Stato. A quanto pare fare una scelta militare, ovvero fare anni di addestramento per imparare a sparare e formarsi per affrontare la violenza umana in modo violento, merita un qualche rispetto da parte delle persone più ottuse. Se uno poi va all'estero per lavoro, pare che la colpa sia dell'azienda. Evidentemente solo gente che non ha mai lavorato nella vita o che non ha mai avuto un minimo di gusto per la sfida può ritenere che andare in trasferta sia un obbligo. In genere è frutto di mesi o anni di fatiche, contrattazioni, guadagnarsi ruoli che si possono perdere un attimo se il collega ti pesta i piedi, ore di straordinari per arrivare lì. Perché la sfida quotidiana ti piace, se no ti eri già arreso dopo qualche anno dicendo: "è stato bello, ma adesso mi dedico ad altro". Perché in nessun lavoro viaggiare è un obbligo, ma i lavori più belli e più stimolanti per le persone appassionate prevedono la conoscenza del resto del mondo e non la chiusura.
Detto questo, se uno va all'estero per portare cibo e vestiti merita tutto il rispetto del nostro Paese. Forse, visto che viviamo per il dio denaro, non si può pretendere che meritino più rispetto di chi all'estero ci va per portare merci, ma almeno lo stesso rispetto. Quindi sì, dopo tutte le critiche, due splendide giovani donne sono vive e tornano a casa libere e l'Italia non può che essere orgogliosa di loro. Perché hanno viaggiato portando pace e amore e aiuto a chi era più in difficoltà.
Tra l'altro trovo alquanto incredibile che le critiche alla loro scelta di essere volontarie in un Paese di guerra arrivino spesso dalle stesse persone a cui ho sentito dire che i profughi non possono venire tutti qui ma dobbiamo "aiutarli a casa loro". Immagino che dalla comodità del loro divano dovremo ascoltare anche come secondo loro queste persone dovrebbero essere aiutate, se non in modo concreto.
lunedì 12 gennaio 2015
La funzione della scuola e la scarsa lungimiranza di persone senza strumenti
In una scuola in Veneto un professore assegna un tema: "Persuadi il tuo compagno leghista che l'immigrazione non è un problema ma una risorsa" e la Lega ovviamente scatena polemiche strumentali.
Un'incredibile incapacità dei genitori dei ragazzi coinvolti di vedere il futuro, di guardare al potenziale che questa giovane generazione può avere di invertire la rotta.
Come rivela la storia del ragazzo bresciano fuggito per andare a combattere in Siria, ripresa giovedì sera da un servizio di La7, molti ragazzi prima di andare a combattere erano persone semplici, magari povere e provenienti da famiglie che non avevano particolari capacità educative, ma persone che avevano tutto il potenziale per diventare buoni cittadini. Il bullismo, la discriminazione, l'essere abbandonati a se stessi ha creato in loro un bisogno di riconoscimento. La scuola ha una funzione educativa, di creare cittadinanza, di educare a essere parte di una comunità, non di una famiglia. Non smetterò mai di ripetere un concetto a me caro, in Italia siamo troppo famiglia e troppo poco cittadini. E' un problema culturale anche nostro, non solo dell'Islam.
All'interno di una classe è necessario che ci sia la possibilità per tutti di essere parte di una squadra, di essere potenzialmente in futuro parte attiva nella società allo stesso modo. Ma come in una squadra, il giocatore che viene deriso o lasciato in panchina, finirà per essere venduto ad un'altra squadra che lo saprà valorizzare. Mettere tutte le intelligenze al servizio di un bene comune non è di destra o di sinitra e prescinde dall'opinione personale di un adulto sull'islam, sia esso l'insegnante o il genitore.
Cito un pezzo di un articolo di Vito Mancuso pubblicato un paio di giorni fa:
"Ieri accompagnando mia figlia a scuola pensavo che in classe avrebbe trovato un compagno di fede musulmana e mi chiedevo con che occhi l’avrebbe guardato e con che occhi l’avrebbero guardato gli altri studenti. La disposizione dello sguardo dei figli dipende molto dallo sguardo e dalle parole degli adulti. Ma ora qualcuno provi a pensare di essere un musulmano quindicenne che ogni giorno si sente addosso sguardi diffidenti e rancorosi, e immagini che cosa finirebbe per pensare dell’occidente. (...) Siccome il terrorismo islamico purtroppo c’è ed è in crescita nel cuore stesso dell’Europa, spetta a ognuno di noi decidere se trasformare ogni musulmano in un nemico e in un potenziale terrorista oppure no. E tutto procede da come parliamo dell’Islam e da come guardiamo i musulmani."
Un importante insegnamento per genitori, insegnanti e politici locali pronti a improvvisarsi analisti esperti in politica estera, magari dopo essere andati in vacanza a Jesolo da sempre e non aver neanche mai messo piede fuori dall'Italia se non per un comodo all inclusive, pronti a trasmettere ai figli come "educativa" un'opinione da bar che è giusto che sia espressa al bar, ma che non può diventare linea guida di un approccio al diverso di un'intera società. Nella fase di crescita il ragazzo si sta formando come cittadino, come parte di un sistema Paese, come futuro lavoratore e come persona che nel suo complesso può scegliere di contribuire allo sviluppo della società stessa o alla sua distruzione. La libertà è anche questo: osservare la propria società, decidere se e come farne parte e fino a che punto contribuire a cosa.
La scuola e tutti le occasioni di socializzazione per bambini e adolescenti hanno quindi un compito molto arduo: far sì che lo sguardo di un bambino verso l'altro si mantenga quanto più a lungo possibile, e che l'approccio alla conoscenza e al gusto della scoperta non sia rovinato già in giovane età con l'introduzione di preconcetti che poi sono ovviamente duri a morire in età adulta.
Non far nascere quel preconcetto nelle nuove generazioni è una responsabilità di tutti perché domani non ci siano persone musulmane, uomini o donne che siano, che finiscono col scegliere la famiglia, la moschea, o chiunque li accolga e li indottrini come "meglio" rispetto a una società che non ha saputo trovargli un posto e dialogare con loro per anni.
Un'incredibile incapacità dei genitori dei ragazzi coinvolti di vedere il futuro, di guardare al potenziale che questa giovane generazione può avere di invertire la rotta.
Come rivela la storia del ragazzo bresciano fuggito per andare a combattere in Siria, ripresa giovedì sera da un servizio di La7, molti ragazzi prima di andare a combattere erano persone semplici, magari povere e provenienti da famiglie che non avevano particolari capacità educative, ma persone che avevano tutto il potenziale per diventare buoni cittadini. Il bullismo, la discriminazione, l'essere abbandonati a se stessi ha creato in loro un bisogno di riconoscimento. La scuola ha una funzione educativa, di creare cittadinanza, di educare a essere parte di una comunità, non di una famiglia. Non smetterò mai di ripetere un concetto a me caro, in Italia siamo troppo famiglia e troppo poco cittadini. E' un problema culturale anche nostro, non solo dell'Islam.
All'interno di una classe è necessario che ci sia la possibilità per tutti di essere parte di una squadra, di essere potenzialmente in futuro parte attiva nella società allo stesso modo. Ma come in una squadra, il giocatore che viene deriso o lasciato in panchina, finirà per essere venduto ad un'altra squadra che lo saprà valorizzare. Mettere tutte le intelligenze al servizio di un bene comune non è di destra o di sinitra e prescinde dall'opinione personale di un adulto sull'islam, sia esso l'insegnante o il genitore.
Cito un pezzo di un articolo di Vito Mancuso pubblicato un paio di giorni fa:
"Ieri accompagnando mia figlia a scuola pensavo che in classe avrebbe trovato un compagno di fede musulmana e mi chiedevo con che occhi l’avrebbe guardato e con che occhi l’avrebbero guardato gli altri studenti. La disposizione dello sguardo dei figli dipende molto dallo sguardo e dalle parole degli adulti. Ma ora qualcuno provi a pensare di essere un musulmano quindicenne che ogni giorno si sente addosso sguardi diffidenti e rancorosi, e immagini che cosa finirebbe per pensare dell’occidente. (...) Siccome il terrorismo islamico purtroppo c’è ed è in crescita nel cuore stesso dell’Europa, spetta a ognuno di noi decidere se trasformare ogni musulmano in un nemico e in un potenziale terrorista oppure no. E tutto procede da come parliamo dell’Islam e da come guardiamo i musulmani."
Un importante insegnamento per genitori, insegnanti e politici locali pronti a improvvisarsi analisti esperti in politica estera, magari dopo essere andati in vacanza a Jesolo da sempre e non aver neanche mai messo piede fuori dall'Italia se non per un comodo all inclusive, pronti a trasmettere ai figli come "educativa" un'opinione da bar che è giusto che sia espressa al bar, ma che non può diventare linea guida di un approccio al diverso di un'intera società. Nella fase di crescita il ragazzo si sta formando come cittadino, come parte di un sistema Paese, come futuro lavoratore e come persona che nel suo complesso può scegliere di contribuire allo sviluppo della società stessa o alla sua distruzione. La libertà è anche questo: osservare la propria società, decidere se e come farne parte e fino a che punto contribuire a cosa.
La scuola e tutti le occasioni di socializzazione per bambini e adolescenti hanno quindi un compito molto arduo: far sì che lo sguardo di un bambino verso l'altro si mantenga quanto più a lungo possibile, e che l'approccio alla conoscenza e al gusto della scoperta non sia rovinato già in giovane età con l'introduzione di preconcetti che poi sono ovviamente duri a morire in età adulta.
Non far nascere quel preconcetto nelle nuove generazioni è una responsabilità di tutti perché domani non ci siano persone musulmane, uomini o donne che siano, che finiscono col scegliere la famiglia, la moschea, o chiunque li accolga e li indottrini come "meglio" rispetto a una società che non ha saputo trovargli un posto e dialogare con loro per anni.
sabato 10 gennaio 2015
Esportare merci non è esportare ideali
Abbiamo esportato merci, per decenni, e creato rapporti commerciali con le altre culture per secoli.
Non ci siamo mai posti il problema se, in nome del business, fosse lecito fare affari con chi non sa rispettare le donne, con chi sfrutta gli essere umani. Anzi, spesso abbiamo esportato la produzione in Paesi dove già sappiamo che i diritti dei lavoratori non vengono rispettati, e non abbiamo fatto nulla per portarglielo.
Le nostre "liberté, égalité, fraternité a quanto pare dovevano essere valide solo per noi Europei, con un tacito consenso che altrove non dovessero necessariamente avere lo stesso significato.
Però abbiamo sostenuto la globalizzazione delle merci, dei servizi, del turismo. I prodotti possono circolare perché creano denaro, le persone non ci piacciono perché portano idee. Il che sarebbe bellissimo se dalle idee ne uscisse un incontro, un arricchimento, ma evidentemente era troppo faticoso. Mandare una mail predefinita, timbrare bolle doganali, fare trattative per il gusto personale di sfida che aumenta l'ego e l'autostima, guadagnare soldi per comprare altri prodotti sono evidentemente elementi sufficienti a spingerci a correre, darsi da fare 10 ore al giorno, creare quintali di rifiuti. Ma le nostre libertà, uguaglianza e fratellanza che sono alla base dell'Europa così come la conosciamo, quelle non si esportano con i prodotti.
Esportanto una bibita si esporta un rito, un'appartenenza a un gruppo di consumatori, non un'idea di libertà. Andare a impiantare ponti radio in Paesi in via di sviluppo non porta automaticamente a far sì che le persone in quei Paesi utilizzino quei mezzi di comunicazione per una maggiore libertà e uguaglianza di opportunità, anzi su basi culturali dittatoriali e discriminatorie potrebbe avvenire il contrario. Riflettiamo su questo, riflettiamo sul fatto che la nostra idea di donna libera ed emancipata deve essere prima di tutto radicata in noi per poter essere esportata, e considerata una conditio sine qua non per potersi confrontare con il cliente o il fornitore.
Proviamo a non considerare il lavoratore "sacro" rispetto al volontario, e a rivedere e definire il viaggio come tale e non come vacanza o mero turismo.
Il business non implica un obbligo ad avere a che fare con persone che non rispettano i diritti umani, e nel momento in cui chiudiamo gli occhi di fronte a questo siamo tutti responsabili, e tutti insieme stiamo tradendo i valori e i diritti umani in cui, a parole, diciamo di credere.
Non ci siamo mai posti il problema se, in nome del business, fosse lecito fare affari con chi non sa rispettare le donne, con chi sfrutta gli essere umani. Anzi, spesso abbiamo esportato la produzione in Paesi dove già sappiamo che i diritti dei lavoratori non vengono rispettati, e non abbiamo fatto nulla per portarglielo.
Le nostre "liberté, égalité, fraternité a quanto pare dovevano essere valide solo per noi Europei, con un tacito consenso che altrove non dovessero necessariamente avere lo stesso significato.
Però abbiamo sostenuto la globalizzazione delle merci, dei servizi, del turismo. I prodotti possono circolare perché creano denaro, le persone non ci piacciono perché portano idee. Il che sarebbe bellissimo se dalle idee ne uscisse un incontro, un arricchimento, ma evidentemente era troppo faticoso. Mandare una mail predefinita, timbrare bolle doganali, fare trattative per il gusto personale di sfida che aumenta l'ego e l'autostima, guadagnare soldi per comprare altri prodotti sono evidentemente elementi sufficienti a spingerci a correre, darsi da fare 10 ore al giorno, creare quintali di rifiuti. Ma le nostre libertà, uguaglianza e fratellanza che sono alla base dell'Europa così come la conosciamo, quelle non si esportano con i prodotti.
Esportanto una bibita si esporta un rito, un'appartenenza a un gruppo di consumatori, non un'idea di libertà. Andare a impiantare ponti radio in Paesi in via di sviluppo non porta automaticamente a far sì che le persone in quei Paesi utilizzino quei mezzi di comunicazione per una maggiore libertà e uguaglianza di opportunità, anzi su basi culturali dittatoriali e discriminatorie potrebbe avvenire il contrario. Riflettiamo su questo, riflettiamo sul fatto che la nostra idea di donna libera ed emancipata deve essere prima di tutto radicata in noi per poter essere esportata, e considerata una conditio sine qua non per potersi confrontare con il cliente o il fornitore.
Proviamo a non considerare il lavoratore "sacro" rispetto al volontario, e a rivedere e definire il viaggio come tale e non come vacanza o mero turismo.
Il business non implica un obbligo ad avere a che fare con persone che non rispettano i diritti umani, e nel momento in cui chiudiamo gli occhi di fronte a questo siamo tutti responsabili, e tutti insieme stiamo tradendo i valori e i diritti umani in cui, a parole, diciamo di credere.
Iscriviti a:
Post (Atom)