Abbiamo esportato merci, per decenni, e creato rapporti commerciali con le altre culture per secoli.
Non ci siamo mai posti il problema se, in nome del business, fosse lecito fare affari con chi non sa rispettare le donne, con chi sfrutta gli essere umani. Anzi, spesso abbiamo esportato la produzione in Paesi dove già sappiamo che i diritti dei lavoratori non vengono rispettati, e non abbiamo fatto nulla per portarglielo.
Le nostre "liberté, égalité, fraternité a quanto pare dovevano essere valide solo per noi Europei, con un tacito consenso che altrove non dovessero necessariamente avere lo stesso significato.
Però abbiamo sostenuto la globalizzazione delle merci, dei servizi, del turismo. I prodotti possono circolare perché creano denaro, le persone non ci piacciono perché portano idee. Il che sarebbe bellissimo se dalle idee ne uscisse un incontro, un arricchimento, ma evidentemente era troppo faticoso. Mandare una mail predefinita, timbrare bolle doganali, fare trattative per il gusto personale di sfida che aumenta l'ego e l'autostima, guadagnare soldi per comprare altri prodotti sono evidentemente elementi sufficienti a spingerci a correre, darsi da fare 10 ore al giorno, creare quintali di rifiuti. Ma le nostre libertà, uguaglianza e fratellanza che sono alla base dell'Europa così come la conosciamo, quelle non si esportano con i prodotti.
Esportanto una bibita si esporta un rito, un'appartenenza a un gruppo di consumatori, non un'idea di libertà. Andare a impiantare ponti radio in Paesi in via di sviluppo non porta automaticamente a far sì che le persone in quei Paesi utilizzino quei mezzi di comunicazione per una maggiore libertà e uguaglianza di opportunità, anzi su basi culturali dittatoriali e discriminatorie potrebbe avvenire il contrario. Riflettiamo su questo, riflettiamo sul fatto che la nostra idea di donna libera ed emancipata deve essere prima di tutto radicata in noi per poter essere esportata, e considerata una conditio sine qua non per potersi confrontare con il cliente o il fornitore.
Proviamo a non considerare il lavoratore "sacro" rispetto al volontario, e a rivedere e definire il viaggio come tale e non come vacanza o mero turismo.
Il business non implica un obbligo ad avere a che fare con persone che non rispettano i diritti umani, e nel momento in cui chiudiamo gli occhi di fronte a questo siamo tutti responsabili, e tutti insieme stiamo tradendo i valori e i diritti umani in cui, a parole, diciamo di credere.
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