La
domanda da porsi non è sulle condizioni, ma su chi siamo. Siamo Europei? Perché
se fossimo veramente consapevoli della nostra identità Europea, non ci sarebbe
alcun dubbio sulla necessità di una moneta unica.
Se
c’è un problema di percezione della nostra identità Europea, non è economico ma
culturale. Da ricercare nelle radici più antiche dell’Europa, e nel gran numero
di fattori cosiddetti “divisivi”. In una società sempre più frammentata, che ha
perso il senso di comunità, si cerca una nuova identità e ci si scopre a non
trovarla più nella sicurezza della famiglia, dei rapporti dovuti per, dell’infallibilità
della Chiesa. Si cercano nuove sicurezze economiche, nelle auto a rate, la casa
a rate, il tempo indeterminato.
Poi
arriva la crisi che mette in discussione il tutto e gli uomini (o le donne)
soli, solitari, che hanno investito tutto in beni materiali considerando la
Cultura un lusso si ritrovano senza più nulla. O magari senza una piccola
percentuale di quello che avevano prima, ma in ogni caso con un grande bisogno
di autodefinirsi in qualche modo: disoccupati in quanto non occupati, donne
perché diverse dagli uomini, minoranza perché non maggioranza, oppure italiani
in quanto non tedeschi, inglesi, extracomunitari etc.
Definirsi
italiani aiuta a identificare un altro da criticare, incolpare, correggere, da
cui dissentire. Essere Europei implicherebbe uno sforzo troppo grande, vuol
dire mettere in gioco l’essere italiani e i valori trasmessi da parenti e
vicini di casa, che magari non saranno simpatici ma sappiamo già chi sono, per
provare a aprirsi alle novità e a considerare positivo il cambiamento. Provare
a guardare come lavorano i tedeschi, i diritti delle donne francesi o inglesi,
le politiche di accoglienza degli stranieri degli altri Paesi. Confrontarsi,
guardare al modello migliore, farlo proprio. Ma come è possibile tutto ciò se
ancora pensiamo in lire? Se chiamiamo l’Europa quando arrivano dei profughi di
guerra sulle nostre coste e poi la disprezziamo quando dall’Europa ci mostrano
un modello economico o lavorativo chiedendoci di valutarlo e prenderlo in
considerazione in toto, con diritti e doveri, non solo quando fa comodo?
Le
domande sono tante e la chiave non è nell’economia ma nella forma mentis delle
persone, nella capacità che avremo di far sentire più Europei tutti i
cittadini, nel non chiuderci in campanilismi e provincialismi che nel 2014
rasentano il ridicolo. Dare a tutti gli strumenti culturali per ripensare il
mondo intero in un’ottica globale, per superare l’idea dell’altro come nemico
attraverso cui identificare se stessi. L’Europa può confrontarsi, nel suo
insieme, con gli Stati Uniti, col mondo islamico, con l’Estremo Oriente in
veloce crescita. Dipendiamo gli uni dagli altri, ma spesso non ci piace,
preferiamo semplificare perché è più facile, vorremmo un confine chiaro per
stabilire cosa è “nostro” cosa è “loro”. L’Italia da sola sul mercato internazionale
non esiste, ma non esiste da sola neanche quando si parla di politica estera o di
diritti umani. Siamo già Europei geograficamente ed economicamente, ora
dobbiamo lavorare per esserlo anche culturalmente.
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